septiembre 14, 2007

Venezuela: gli italiani vivono nell'incubo



Ieri a 'Le Iene' un 'intevista ad un capetto dei 'ranchos' venezuelani, uno dei centinaia di killers che per poco più di 1.000 Euro uccide chi vuoi, basta una foto e il suo indirizzo.
Questo è il Venezuela di oggi, peggiorato moltissimo da quando c'è Chavez, la sicurezza non esiste. Caracas ha raggiunto il primo posto tra le città più pericolose del mondo e, fino a poco tempo fa era al secondo, perchè al primo c'era 'Il Cairo'.
Grazie Hugo!
Quello che segue è l'articolo di Paolo della Sala
Benvenuti nel cimitero dei morti viventi…Qui la vita non vale niente! I cani sono trattati meglio!” I detenuti italiani reclusi presso l’Internado Judicial de Los Teques, cittadina a quaranta chilometri da Caracas, ci accolgono con queste frasi lapidarie. Per giungere a questo carcere lugubre e fatiscente, dobbiamo risalire una collina lungo una stradina ripida che corre tra le baracche di un barrio, come si chiamano le favelas venezuelane. Entriamo nel cortile dove i detenuti hanno l’ora d’aria, accompagnati dal personale di una Ong del posto. I prigionieri sono al sesto giorno di sciopero della fame, per protesta contro i maltrattamenti delle guardie e le condizioni cui sono costretti a vivere. Incontriamo gli italiani: hanno perso chili e speranze, in questo inferno dantesco. Tutta l’Italia è rappresentata a Los Teques, da Bergamo alla Sicilia, da Roma a Napoli passando per Reggio Emilia e Bologna. “Gli abusi di ogni genere” ci racconta un detenuto “sono all’ordine del giorno. E’ una tensione continua. Siamo psicologicamente a pezzi. Di notte non ci fanno dormire, oppure veniamo coinvolti in un pestaggio in corso”. …Se siamo qui certamente non è perché trasportavamo cioccolatini, ma i diritti minimi dovrebbero essere garantiti”. Un altro ci ricorda che in carcere si deve pagare ogni cosa: “Qui tutto si paga a prezzi triplicati perché ogni cosa è gestito dai capi banda interni”. “Il cibo è immangiabile” -grida un altro detenuto- “…Tutti i giorni si mangia arepa –un impasto di farina di mais fritto con sardine e acqua”. Chi è diabetico non ha la giusta dose di insulina, e le medicine si pagano care. Alcuni hanno la dissenteria e chiedono disperatamente degli antibiotici. Altri non riescono più a comunicare col proprio avvocato. C’è chi cerca soltanto una parola di conforto. C’è polemica tra gli italiani detenuti. Si sentono abbandonati e traditi: i sussidi economici erogati dal governo di Roma arrivano con grande ritardo. Accusano Teodoro Mascitti, vice console onorario di Los Teques, responsabile dell’erogazione dei contributi: “Il denaro arriva ogni quattro o cinque mesi, e quasi sempre senza arretrati. Questo non succede agli spagnoli o ai polacchi!”. Passi il ritardo, ma è la mancanza degli arretrati a scatenare la rabbia dei detenuti. Per fortuna c’è anche l’altra faccia della medaglia, quella dell’efficienza e della solidarietà priva di burocrazia, che nasce dalla forza e dalla perseveranza di un sacerdote italiano. Si tratta di padre Leonardo Grasso, da dieci anni in Venezuela, che insieme alla ong Icaro assiste i detenuti italiani con un sostegno spirituale e anche con viveri e medicine di prima necessità. Alcuni finanziamenti arrivano grazie a una convenzione con il Consolato Generale di Caracas, che finanzia direttamente il progetto di assistenza. Un esempio di efficienza da parte delle nostre istituzioni, e di pragmatismo di una piccola Ong. “Tutto ciò -dice Padre Leonardo- nasce dalla volontà di rispondere alle necessità dei detenuti italiani che, anche se colpevoli, sono sempre delle persone con una loro dignità. Un dramma che incontriamo in tutti i penitenziari venezuelani”. Italiani che non fanno notizia, e quindi sono dimenticati da tutti e lasciati in balia della violenza e di una burocrazia oppressiva. L’Italia ha in Venezuela il gruppo di carcerati più consistente di tutto il continente sudamericano. Secondo i dati del Ministero degli Esteri italiano si tratta di quaranta persone, tra uomini e donne. Secondo le Ong sono più di una sessantina, in maggioranza detenuti per traffico di droga, con una condanna media di otto anni. Qui non c’è garantismo, né arriva l’urlo di dolore dei Bertinotti e dei Prodi: siamo nel regno di Chavez. Fossero detenuti negli Stati Uniti diventerebbero dei Silvio Pellico, o almeno delle Silvia Baraldini. Nel regno marxislamico bolivariano vengono dimenticati.Il Venezuela detiene un triste primato: è la nazione con la più alta percentuale di morti negli istituti penitenziari. Con una popolazione carceraria di circa 19.000 unità, muoiono 350 prigionieri ogni anno, quasi uno al giorno, secondo quanto denuncia Humberto Prado -direttore dell’Observatorio Venezolano de Prisiones. I detenuti deceduti in carcere salgono di numero ogni anno, e a questi si deve aggiungere la mattanza “normale: 407 feriti nel solo primo semestre del 2006. Per non parlare degli arsenali di fucili, pistole, bombe lacrimogene e coltelli che emergono dopo ogni perquisizione, a causa della corruzione delle guardie carcerarie. A Los Teques le celle sono state completamente sventrate, per protesta, con i flessibili. I detenuti dormomo per terra, in stanzoni da ottanta persone con un solo bagno funzionante. Il carcere ha più di 800 prigionieri, invece dei 350 previsti. Quasi tutti sono in attesa di sentenza definitiva. Le norme igieniche sono quasi inesistenti e le infezioni ovviamente impazzano. In caso di malattia i detenuti devono pagare per avere cure in tempo utile. Ma spesso le cure vengono negate, per “motivi di sicurezza”. La vita, nel carcere di Los Teques, rispecchia quella di tutto il Venezuela, moltiplicata per cento in termini di violenza, mancanza di regole sensate, prevaricazioni e burocrazia. “Qui l’odore della morte ti accompagna sempre”, dice salutandoci un detenuto italiano. Non si vede l’alba e nemmeno il tramonto a Los Teques. Nel regno di Simòn Bolivar non c’è speranza per i poveri carcerati. Qui non vengono i medici cubani pagati da Chavez, il militare golpista abbracciato nel parlamento di Roma. In Venezuela i paladini degli oppressi toccano Caino, anzi lo prendono a calci.

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